venerdì 22 maggio 2009

Beh, senza dubbio il reality show si può amare, si puo odiare, ma certo non è possibile ignorarlo, ormai fenomeno mass mediatico di dimensione planetarie. Sembrerà strano, ma secondo la consueta indagine condotta ogni anno da Eurodata Tv Worldwide e Mediametrié, sull' audience di oltre seicento emittenti in settantadue paesi per un totale di due miliardi e mezzo di spettatori, il reality show occupa il terzo posto nella classifica degli ascolti mondiali relativi all’intrattenimento. Contemporaneamente in rete webblog e forum interamente dedicati a Grande fratello e sue derivazioni fanno esplodere una nuova sindrome, la «reality TV addiction» di cui il primo e più noto portatore sano e tal Andy Dehnart, web producer, docente alla Stetson University di DeLand (Florida). Dal 2000 Dehnart gestisce un weblog nel quale raccoglie, seleziona, ordina e pubblica trame, ultime notizie e gossip su tutti i reality show statunitensi. In Italia c’è pure chi ha acquistato il dominio, www.realityshow.it ultimo di una sequela di siti web incentrati sui vari format italiani.
Una straordinaria passione che viene troppo sbrigativamente spiegata appellandosi ai classici meccanismi di identificazione con i protagonisti posti di fronte alla realizzazione di un sogno, ad una dichiarazione di amore e/o alla richiesta di perdono per un torto subito. Ma l’immedesimazione sembra funzionare solo per i cosiddetti reality sentimentali, i meno vitali in termini di audience, sempre più spesso trascurati a favore dei “reality di avventura”,ovvero di quelle formule in cui prevale la competizione e dove, soprattutto, i telespettatori sono chiamati a decretare gli sfidanti delle singole battaglie al grido di “uno solo ne resterà”. Più che interrogarsi sul grado di realtà messo in onda i telespettatori sembrano gradire quel tanto di crudele che traspare nelle situazione coatte: si tratti di vip o del vicino di casa quel che conta è vedere una varia umanità in difficoltà. Non a caso in molti reality si ricorre sempre più spesso al confronto/scontro tra i concorrenti, invitati a fronteggiarsi anche fisicamente. La virata del pubblico verso un gusto di visione votato alla cattiveria è forse l’aspetto più dirompente del reality show: ciò che piace, attrae, incatena alla visione è la lotta senza esclusioni di colpi, è “l’arena e sangue” dei gladiatori nella quale il pollice verso o pollice alzato è sostituito da una telefonata o da un sms.
"Il generale che diventò schiavo, lo schiavo che diventò gladiatore, il gladiatore che sfidò l'imperatore” è la raffigurazione mitologica del concorrente del reality show, assolutamente a suo agio nell’anfiteatro televisivo e per nulla intimorito da un pubblico alla ricerca di emozioni forti. La tendenza segnala una profonda trasformazione nell’ homo telespectator e nel tipo di relazione che intrattiene oggi con il medium televisivo, che perde definitivamente quella dimensione romantica di finestra sul mondo per trasformarsi in un anfiteatro dove il consumo diventa distruzione, catarsi, transfer. Vi è qualcosa di sublime in questa inclinazione crudele del telespettatore, la risposta estrema ad una televisione in crisi di idee che spinge sull’acceleratore dei reality declinato in chiave esclusivamente autoreferenziale. Chiamati “per contratto” a infarcire talk show e contenitori domenicali i protagonisti dei reality show vengono spalmati sull’intera comunicazione televisiva che fatalmente finisce per disconnettersi con l’esterno per ripiegarsi su se stessa, fino al cortocircuito mediatico. Il pericolo è fin troppo evidente e come diceva il vecchio Seneca: “Via, neppure questo capite, che i cattivi esempi si ripercuotono su coloro che li mettono in pratica?”

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